22 maggio 2018

Quale teoria per l'architettura locale


Nel numero 1015 du Domus (Luglio -Agosto 2017) il direttore della Rivista, Nicola Di Battista, nel suo editoriale ribadisce un intento, in modo tanto perentorio da apparire sfiduciato e pessimista negli esiti: "è indispensabile e importante per noi sostenere il lavoro che facciamo come architetti con una teoria chiara e ben esplicitata, in maniera da poter essere compresa appieno e diventare la base comune del lavoro, condivisa dal maggior numero di persone possibile". Sostiene cioè che non è tanto importante discutere del risultato del fare architettonico, quanto dei contenuti, della teoria che lo determina, per non ricadere nella "barbarie del capriccio individuale, in grado di rappresentare al massimo solo se stesso e il proprio autore ma niente di più"
Il suo testo trae spunto da una constatazione negativa e cioè che oggi è più semplice perseguire un'architettura come tecnica normata e codificata che produca dei manufatti certificati e rassicuranti, piuttosto che avventurarsi in ambiti culturali che sfuggono alle certezze e coltivano invece maggiormente il dubbio". La teoria pare bandita dall' orizzonte del fare architettonico, permane il culto della tecnica o, caso mai, della creatività che "a ben vedere persegue lo stesso obiettivo: quello di ridurre questa disciplina ad una sola parte di essa, sperando in questa maniera di non dover rispondere per intero alle importanti questioni che le sono proprie e che la sostengono".
E' svanito il senso dell'architettura come espressione di contenuti collettivi, quando invece, per dirla con per dirla con Ortega y Gasset, l'artista e ancor più l'architetto sono un "organo della vita collettiva", anzi, "l'autentico architetto è un intero popolo".
Questo intento editoriale si riflette nei contenuti della rivista: gli articoli su progetti (i cui esiti tecnici ed estetici sono opinabili, quando non discutibili) sono introdotti in questo modo:
"Il padiglione rivela la capacità dello studio  di Oslo d'interpretare il territorio e il programma poeticamente.  L'opera architettonica di Manthey Kula mette in luce indirettamente l'impegno quotidiano di molti studi che, lavorando su progetti apparentemente tecnici, riescono a trasformare con passione e intelligenza ogni piccola commissione in terreno fertile per fare architettura in modo alto e poetico" (p. 86, Terminal dei traghetti Forvik Norvegia".



Oppure: Press House, Lynderburg Sudafrica, di Marco Zanuso: "Un'abitazione disegnata negli anni Settanta ... quanto mai attuale nel suo approccio rispettoso ma radicale" e, in conclusione "Casa Press è intrinsecamente innovativa e straordinariamente attuale, esempio di una realizzazione concepita sotto la disciplina unitaria del progetto, prima che il design, la tecnologia e la progettazione ambientale prendessero una strada autonoma rispetto all'architettura" (p. 75)
Si tratta  però tutti esempi di architettura "alta", ma non sufficienti a fornire modelli per l'architettura e l'urbanistica delle nostre città e dei nostri territori. Sono esempi che contraddicono l'assunto esposto nell'editoriale.
Teorie e modelli utili per recuperare una visione positiva, progressista, comunitaria ecologica per la nostra architettura sono ancora di là da venire.

25 aprile 2018

Il potere del simbolo


Nel giorno del 25 aprile si legge che alcune amministrazioni comunali non vogliono che la banda esegua "Bella ciao" perchè sarebbe una musica divisiva.
Della stessa parte politica sono coloro che vorrebbero ripristinare la statua che troneggiava negli anni '30 in Piazza Vittoria: potere dei simboli, materiali e immateriali. Potere della musica e dell'arte!
In realtà la discussione che appassiona da anni molti Bresciani è solo apparentemente oziosa: posizionare una statua sul piedistallo vuoto di Piazza Vittoria non incrementa l'occupazione, non favorisce l'integrazione degli stranieri, non risolve i problemi delle famiglie con anziani non autosufficienti, ma scalda comunque gli animi.
In effetti il tema della ricollocazione della statua del giovane atleta, altrimenti detta "L'era fascista" (così la definì Mussolini all'inaugurazione nel 1932) o "il bigio" dai bresciani che, seduti al caffè, avevano modo di valutare le qualità virili del campione immortalato da Dazzi, sollecita la discussione su argomenti fondanti l'idea che una città vuol dare di sé, sia sul  piano ideologico politico, sia nel rapporto che intrattiene con l'arte pubblica.
Risultati immagini per il bigio piazza vittoria

Il tema ideologico è stato il più dibattuto da quando nel 2013 la giunta di centro destra ipotizzò di ricollocarla nella Piazza Vittoria appena restaurata. La statua però ha presto dimostrato di  non aver perso il suo portato politico: nelle forme, oltre che nella memoria pubblica, rappresenta la pagina più oscura,  tragica e distruttiva della storia italiana del Novecento. La sua ricollocazione nella più compiuta Piazza fascista d'Italia, si è detto, avrebbe comportato il catalizzarsi di opposte violenze. E così l'amministrazione successiva, di centro sinistra non ha dato corso al progetto,
In effetti, questo sarebbe l'unico simbolo monumentale posto nel centro cittadino e riverberebbe i suoi foschi significati sulle piazze storiche della vita civica bresciana.
Arnaldo da Brescia, Garibaldi, Zanardelli, che del centro storico sono ai margini, poco potrebbero per contrastare quest'aura.
La rimozione della statua dal suo piedistallo nel dopoguerra e l'assenza che oggi appare, ha un valore storico e civico infinitamente più alto di quello che deriverebbe dalla sua ricollocazione. Pertanto, così come è stato giusto rimuovere i simboli delle dittatura dalla Russia, alla Romania, all'Iraq, è giusto che il simbolo dl fascismo bresciano non torni al suo posto.


Sul piano estetico il discorso mi appare però più complesso.
La piazza metafisico-fascista, manca effettivamente  di un pezzo, di un fuoco ottico che la completi.
Al contempo la distruzione, e anche l'occultamento di un'opera d'arte, di dubbio valore artistico, ma di sicuro valore storico, non è segno di maturità civica e di consapevolezza di sé.
Brescia, come tutte le città ha bisogno di monumenti, ovvero di opere d'arte in cui riconoscersi, non solo si puri ornamenti estetici, ma di opere che fissino il paesaggio della memoria.
La scultura di Mimmo Paladino, posta sul piedistallo di Piazza Vittoria, sebbene efficace e significativa se accostata alle altre opere che hanno costituito l'allestimento temporaneo delle opere dell'artista, presa singolarmente appare un simulacro dell'Era Fascista: sostituendo il bigio lo richiama nell'impianto spaziale, senza negarlo. Non funziona.
Risultati immagini per piazza vittori paladino

Il centro di Brescia ha bisogno di un'opera che ne richiami i valori civici più elevati. I valori che dal rifiuto della dittatura e della guerra, confermino l'etica del lavoro, della solidarietà, della volontà di pace, valori  che hanno caratterizzato la storia di questa gente.
E il bigio?
La città manca, incredibilmente, di un museo d'arte moderna e di una galleria di arte contemporanea.
Non sarebbe ora di costituirlo? I grandi collezionisti bresciani, le fondazioni, i filantropi, gli amanti della città, non possono unirsi per donare alla cittadinanza un luogo dove l'arte e la storia più recente sia degnamente custodita, rappresentata e mostrata, prima di tutto ai cittadini presenti e futuri, vecchi e nuovi, e poi agli ospiti e ai turisti.
Nel contesto di un museo d'arte moderna, in un parco di sculture, in un luogo dell'arte e della memoria (come quello che ad esempio si è aperto a Bucarest), il giovane atleta di Dazzi potrebbe essere esposto degnamente, illustrato e spiegato ai visitatori, mettendone in luce le contraddizioni, la sua storia controversa, a partire dal progetto (il giovane che fece da modello è stato davvero, in seguito, un partigiano ucciso dai fascisti?), dalla sua collocazione originaria, fino alle ragioni della sua rimozione.

ANSA: quando cadono le statue

Interessante saggio di Lisa Parola su Art tribune; arte storia monumento