28 aprile 2007

Piano o non piano?

Si sa che il caldo dà alla testa e, probabilmente, un inverno come quello appena trascorso, non ha concesso sufficienti momenti di riflessione davanti al caminetto, calde e lunghe letture sotto le coperte, necessari raccoglimenti entro capienti cappotti.
A primavera sbocciano articoli che olezzano di rancido, come le opinioni espresse nell'articolo "il falso mito della disciplina urbanistica" e successiva intervista a Stefano Moroni, autore del saggio, La città del liberalismo attivo (CittàStudiEdizioni).
Si individuano i guasti delle periferie, il degrado delle grandi città, la distruzione dell'ambiente, i coacervi edilizi che, a carissimo prezzo, raccolgono umanità dolente, non nel malaffare che ha portato a produrre piani a vantaggio di potentati corrotti, non nella definizione di regole negoziate all'interno dei covi di speculatori e delinquenti, ma, al contrario nel principio stesso di voler governare un territorio attraverso un piano.
Cioè viene decretato il fallimento della pianificazione urbanistica degli ultimi quaranta anni, per l'inadeguatezza dello strumento e non per l'uso che di questo strumento si è fatto.
Addirittura la sfera del pubblico dovrebbe, per Moroni, estraniarsi da qualunque intervento sul territorio limitandosi a far rispettare alcune, poche regole universali.
E fra le regole universali che cosa ci mettiamo? Che è vietato costruire a meno di tre metri dal confine? O che è vietato aprire una finestra che consente una veduta diretta sul fondo altrui?
Ma, se non sbaglio, ciò è già definito dal codice civile.
Mi rendo tristemente conto che non tutti concordano sul principio (che io riterrei universale) che il suolo, come l'aria, come l'acqua è un bene non accaparrabile, di cui l'individuo non può disporre a proprio piacimento; beni che gli uomini, raccolti in comunità, ai diversi livelli, devono poter gestire a vantaggio del bene comune.
Ma, forse, come propone Moroni, insieme agli interventi pubblici sul territorio, alle case popolari, agli ospedali e alle scuole che non producono sufficienti utili, a costosi parchi e giardini realizzati su suoli espropriati, vogliamo buttar via anche la stessa nozione di bene comune.
Moroni riconosce che il sistema degli indici di edificabilità ha prodotto enormi sperequazioni, ha generato dissesti e violenze, ma di contro l'attribuzione al territorio di indici di edificabilità omogenei, compravendibili sul mercato, presumendo che così si possa togliere nutrimento al perverso sistema di scambi, pressioni, corruzioni, sperequazioni, che conduce a discriminazioni e sopraffazioni sociali-urbane, è la soluzione? Non credo ...

Credo al contrario che si debba ricominciare a pensare che un bene comune esiste, e così anche una proprietà comune, una qualità comune, un patrimonio comune, che, in democrazia, i rappresentanti della cittadinanza sono chiamati a difendere, potenziare, salvaguardare dalla voracità degli individui.
E' la base della democrazia, che non può non produrre piani, che non può prescindere dalla partecipazione dei cittadini alle scelte, alle decisioni e al godimento dei frutti che forse può ancora dare la città.
Soprattutto di quei cittadini che non hanno terreni su cui speculare.