21 ottobre 2007

viaggio alla dimora del caos

L'anno scorso, con amici, siamo stati a Lione,
casualmente siamo capitati durante la Festa delle Luci (8 dicembre), evento di quelli che piacciono nella nostra epoca:
sfavillante, inutile, (quel luogo, quanto meno, ha dato i natali ai fratelli Lumiere), ma capace di richiamare folle di ogni genere che riempiono di notte una città che sicuramente, e anche in quella occasione, mantiene un fascino ineffabile.
In un'escursione culturale siamo passati dal convento de La Tourette, di Le Corbusier: non ho trovato che le regole del modernismo si sposassero in modo convincente con la regola monastica e con la regola del paesaggio delle colline di Eveaux .
Quindi siamo andati alla dimora del caos, da ignoranti e con la mente sgombra, non sapendone nulla e, anzi, pensando fosse opera di qualche centro sociale anarcoide.
Ebbene, la perplessità, se non il disprezzo, è stato forse il principale esito di quella visita, per diversi motivi:
1) La villa settecentesca, che, in quanto radicata nella storia di un sito, non è solo patrimonio della persona che in quel momento ne detiene le chiavi, è orribilmente violentata, non solo tradita (il tradimento può comunque contenere elementi di tradizione), ma rinnegata e stravolta.
2) La messa in scena del caos e del brutto, delle emergenze sociali e civili può e, in qualche caso, deve essere fonte di ispirazione ed espressione artistica. Nel caso della dimora del caos alcune opere hanno una buona forza espressiva e una convincente composizione formale e materiale, ma resta il sospetto che la loro efficacia o, peggio, il loro messaggio sia completamente ribaltato di segno dalla collocazione e dal contesto in cui sono poste.



3) il contesto in cui le opere sono collocate e l'insieme dell'operazione suggerisce un compiacimento, un edonismo negativo che mostra quanto quegli urli e quegli insulti non abbiano fondamento, manchino di radici, siano cioè fondamentalmente dei falsi.
Foto


E allora in quest'epoca priva di autenticità ci si chiede se il brutto e il caos che già si esprime in modo "vero" nelle cose "belle" - penso alle schiere di villette a schiera, travi a vista, cotto al piano terra e parquet al primo, pergola e pozzo in giardino, pur senza arrivare ai nani - e che si esprime in modo tragico nella vita privata e nella vita pubblica delle persone, abbia bisogno di un collezionista che innanzitutto non vive quelle esperienze e che, in secondo luogo non sembra mostrare reale, esplicita, attiva partecipazione emotiva e civile nel rappresentarle.
4) E che non mostri reale partecipazione emotiva e civile è dimostrato dal fatto che l'antica dimora è comunque un luogo di lavoro, ovvero ospita persone che sono costrette a produrre reddito, per altri, in un ambiente assolutamente malsano.


Sarebbe grandioso se questi impiegati, in un impeto di rabbiosa rivendicazione, distruggessero tutto ciò che di ... brutto il loro padrone ha potuto creare, sulle loro spalle.

Il povero vicino di casa della dimora del caos, con i suoi piccoli mezzi, ha cercato di contrapporsi con una divertente "Maison del l'Eden", purtroppo altra dimostrazione che il bello e il giusto in questo mondo non prevagono.
 

25 settembre 2007

Ragioni del centro storico

La discussione sul destino del centro storico di Brescia, si rianima.
La Confesercenti chiede l'opinione di Cervellati, urbanista con qualche notevole responsabilità nella riqualificazione del centro storico di Bologna e conseguente pedonalizzazione.
L'architetto Abba, ex consigliere comunale socialista, riflette sui flussi e riflussi delle città, senza tuttavia prendere apertamente posizione.
Si parla di spegnere le telecamere su uno degli accessi al centro storico (quello "più popolare" di Via San Faustino.
Ma quello che manca è una visione (gli anglosassoni direbbero "vision") del centro della città.
Negli anni '80 si piangeva l'espulsione delle residenze dal centro a vantaggio del terziario direzionale.
Nel 2000 il terziario, prima commerciale e ora direzionale, dal centro migra verso nuovi parchi urbani esterni al tessuto storico.
La limitazione del traffico, se il centro perde le sue caratteristiche di centro, mi pare che non abbia più ragion d'essere, se non per la salvaguardia dei monumenti. Ha senso solo se nel centro storico si concentrano funzioni e utilità che restituiscono a quella parte di città un valore non solo simbolico e turistico ma anche di uso quotidiano.
La realtà cosa ci dice: che per prendere una raccomandata dobbiamo andare in periferia (in macchina), per fare la spesa dobbiamo andare in periferia (in macchina), per andare all'ACI idem, i certificati ce li danno nelle anagrafi decentrate (a cui ci rechiamo in macchina, anche se distano poche centinaia di metri), a scuola andiamo in macchina, le migliori gelaterie sono fuori dal centro; i migliori ristoranti, pure; il luogo dello struscio è ai confini del centro (a cui si può accedere in macchina), gli ambulatori medici pure.
In compenso, se abito in centro, e sono anziano, non ricevo le visite dei figli o degli amici, che dovrebbero venirci a piedi, o in autobus;
le vie più turistiche si avviano a diventare surrugati di parchi tematici, con botteghe e punti di ristoro internazionalizzati nel loro kitsch consumistico, arredi urbani che restituiscono l'identità solo dei loro produttori.
Forse possa accontentarmi di raggiungere il centro a piedi la sera, per andare al Teatro Grande unica attrazione cittadina del centro città, (avendo 25 euro da spendere che diventano 100 per una famiglia di quattro persone) perchè il parcheggio di piazza Vittoria costa solo un euro per tutta la notte.
Con tutto ciò non intendo dire che la ZTL è sbagliata, ma che è sbagliata se non è accompagnata da iniziative che diano al centro, in quanto centro pedonale una sua ragion d'essere specifica nell'attuale città postindustriale.
Se questa ragione debba essere quella di diventare un quartiere residenziale (moderna periferia nella città dello sprawl), bhè, i critici degli anni '80, almeno loro, non piangeranno, anzi, con tutta probabilità, la abiteranno.

28 aprile 2007

Piano o non piano?

Si sa che il caldo dà alla testa e, probabilmente, un inverno come quello appena trascorso, non ha concesso sufficienti momenti di riflessione davanti al caminetto, calde e lunghe letture sotto le coperte, necessari raccoglimenti entro capienti cappotti.
A primavera sbocciano articoli che olezzano di rancido, come le opinioni espresse nell'articolo "il falso mito della disciplina urbanistica" e successiva intervista a Stefano Moroni, autore del saggio, La città del liberalismo attivo (CittàStudiEdizioni).
Si individuano i guasti delle periferie, il degrado delle grandi città, la distruzione dell'ambiente, i coacervi edilizi che, a carissimo prezzo, raccolgono umanità dolente, non nel malaffare che ha portato a produrre piani a vantaggio di potentati corrotti, non nella definizione di regole negoziate all'interno dei covi di speculatori e delinquenti, ma, al contrario nel principio stesso di voler governare un territorio attraverso un piano.
Cioè viene decretato il fallimento della pianificazione urbanistica degli ultimi quaranta anni, per l'inadeguatezza dello strumento e non per l'uso che di questo strumento si è fatto.
Addirittura la sfera del pubblico dovrebbe, per Moroni, estraniarsi da qualunque intervento sul territorio limitandosi a far rispettare alcune, poche regole universali.
E fra le regole universali che cosa ci mettiamo? Che è vietato costruire a meno di tre metri dal confine? O che è vietato aprire una finestra che consente una veduta diretta sul fondo altrui?
Ma, se non sbaglio, ciò è già definito dal codice civile.
Mi rendo tristemente conto che non tutti concordano sul principio (che io riterrei universale) che il suolo, come l'aria, come l'acqua è un bene non accaparrabile, di cui l'individuo non può disporre a proprio piacimento; beni che gli uomini, raccolti in comunità, ai diversi livelli, devono poter gestire a vantaggio del bene comune.
Ma, forse, come propone Moroni, insieme agli interventi pubblici sul territorio, alle case popolari, agli ospedali e alle scuole che non producono sufficienti utili, a costosi parchi e giardini realizzati su suoli espropriati, vogliamo buttar via anche la stessa nozione di bene comune.
Moroni riconosce che il sistema degli indici di edificabilità ha prodotto enormi sperequazioni, ha generato dissesti e violenze, ma di contro l'attribuzione al territorio di indici di edificabilità omogenei, compravendibili sul mercato, presumendo che così si possa togliere nutrimento al perverso sistema di scambi, pressioni, corruzioni, sperequazioni, che conduce a discriminazioni e sopraffazioni sociali-urbane, è la soluzione? Non credo ...

Credo al contrario che si debba ricominciare a pensare che un bene comune esiste, e così anche una proprietà comune, una qualità comune, un patrimonio comune, che, in democrazia, i rappresentanti della cittadinanza sono chiamati a difendere, potenziare, salvaguardare dalla voracità degli individui.
E' la base della democrazia, che non può non produrre piani, che non può prescindere dalla partecipazione dei cittadini alle scelte, alle decisioni e al godimento dei frutti che forse può ancora dare la città.
Soprattutto di quei cittadini che non hanno terreni su cui speculare.

28 febbraio 2007

Utopia a VEMA: ma non bastava fare un bell'autogrill?

Utopie reali?
L'ossimoro proposto da Purini nell'ultima Biennale Architettura di Venezia spero non si realizzi mai.

Amo le utopie (forse tanto quanto detesto le utopie realizzate) e le amo proprio per il loro potenziale critico e trasgressivo rispetto al reale, ma l'esposizione di progetti di VEMA sembra proprio voler recuperare la centralità urbana attraverso un nuovo atto fondativo.


Atto fondativo privo però di referenti sociali e culturali e denso solo di referenti utilitaristici.
Lo trovo un esercizio di violenza: si cerca di rifuggire dalla complessità, di uscire dai tracciati problematici e critici che la crescita urbana ha determinato, per invadere ancora e ancora di più un territorio che vergine non è, ma (e lo stupro e ancora più grave), che lo si ritiene tale.
Non vedo traccia della catastrofe (come nel caso di Gibellina, citata da Purini), o dell'emergenza identitaria che offra almeno una labile giustificazione.

Si cerca ancora qualche cosa da colonizzare, evidentemente non ci si riesce in Cina e ci si prova a casa del vicino:
pare che costi troppo riordinare lo sprawl urbano, bonificare i siti industriali degradati, riutilizzare o recuperare un'edilizia senza qualità e che non risponde a minimi requisiti di utilità, coinvolgere cittadini reali ed esistenti per disegnare e riqualificare il proprio territorio.
Meglio trovare sugli assi Palermo-Berlino e Lisbona-Kiev un bel tratto di terreno per intercettare qualche spicciolo. Ma non bastava fare un bell'autogrill?
No, invece si appiccica un terribile francobollo rettangolare su una campagna millenaria, senza alcun rispetto per i tracciati storici, chiudendosi rispetto al mondo entro un rettangolo statico e respingente.
Con tutto il rispetto per la notevole architettura di cui Purini ha dato prova, fra l'altro, proprio a Gibellina, credo che si sia bevuto il cervello, brindando con chi, a Venezia gli ha consentito di farlo.
http://www.padiglioneitaliano.org/